QUESTO E’ IL MIO PAESE
Da uno scritto di Federico Fellini a una Mostra e un Museo a lui dedicati
Quello che mi ha sempre colpito in Federico Fellini è la maestria nel toccare, congiuntamente, diverse corde del sentire e del pensare. I suoi film sono musica per gli occhi e nutrimento per la mente. Mentre imprime alle immagini i segni profondi del suo stile – dopo poche sequenze capiamo inequivocabilmente che si tratta di un suo film – Fellini ci racconta storie mitiche, che affondano nelle caverne dei desideri, delle paure e delle credenze umane; e storie pubbliche, capaci di attraversare un particolare ambiente – storico, politico, antropologico – con una esattezza che sorprende per la sua levità. Ad esempio, così sono più chiaro, Fellini è stato un grande cantore (come si diceva una volta), della sua città. Ma, al tempo stesso, il magico inventore della sua città. Grazie a Fellini, Rimini, e il suo spirito, non sono stati solo raccontati ma, piuttosto, completamente reinventati. I suoi film, con l’apice di “Amarcord”, di cui quest’anno festeggiamo i cinquant’anni, hanno forti legami con l’ambiente antropologico e paesaggistico della giovinezza, scie del ricordo che, come in un fiume carsico, emergono costantemente dalla sua opera. Ma, d’altra parte, la forza creatrice di Fellini segna una potente ricomposizione delle mappe mentali e della percezione pubblica di Rimini.
Per questo, in una mostra – “Fellini 100” – e in un Museo – il “Fellini Museum” – allestiti a Rimini tra il 2019 e il 2021, è stato importante ripartire da quello stupendo magma verbale che si addensa ne “Il mio paese”, lo scritto autobiografico terminato dopo il ricovero del regista in clinica, a Roma, mentre stava preparando il “maledetto” Viaggio di Mastorna, e pubblicato dall’editore Cappelli nel 1967. Inserito da Renzo Renzi nel volume “La mia Rimini”, si tratta di uno scritto fondamentale per l’espansione immaginifica del rapporto fra Rimini e Fellini; un testo poi tradotto in diverse lingue perché capace di codificare una poetica della memoria legata a qualsiasi città dell’infanzia e della giovinezza, consegnandone il racconto agli orizzonti più profondi dell’inconscio collettivo.
Fellini esalta quelle parti insondabili e personali – anamnesi, allucinazioni, frammenti della vita interiore, fantasmi della memoria nei quali ci si perde e ci si incanta – per esprimere il non dominabile dalla ragione, in forme lontane dai rimedi cartesiani della modernità. In questo senso, le magiche presenze di elementi della natura – il mare, la luna, ma anche le manine o le foglie caduche – o atmosferici – come il vento, la nebbia, sino alla neve – conducono alla rarefazione del pensiero razionale, verso l’ampliamento di un visibile incerto ma che sembra quasi farsi tattile. Così per Fellini «La nebbia è una grande esperienza esistenziale. Rimini d’inverno non c’era più. Via la piazza, via il Palazzo comunale, e il Tempio malatestiano dov’è andato a finire? La nebbia ti nasconde agli altri, ti mette nella clandestinità più inebriante, diventi l’uomo invisibile. Non ti vedono e quindi non ci sei»…
Eppure Fellini c’è, c’è più che mai, e come i suoi attori che volteggiano e si perdono nel “nebbione” riminese, anche noi, in questi allestimenti, abbiamo cercato di attraversare l’esperienza del limite, quella cortina umida in cui accendere il mixer della memoria. E indagare “Il mio paese” anche in un altro senso, quello che da Rimini arriva sino a Roma e all’Italia intera. Ecco, vista oggi, la filmografia felliniana racconta l’Italia con squarci di rara efficacia storiografica, spesso con una forza maggiore di quella espressa in opere di chiaro impegno politico e marcata rappresentazione sociale. I suoi sguardi sulla provincia italiana del bar e del bordello, dell’avanspettacolo e della vita di quartiere, della famiglia e della sala cinematografica, della piazza e della televisione, della chiesa e della vita pubblica rinviano al mittente la semplificazione ideologica di molte analisi del passato. La sua estraneità al discorso politico risulta, piuttosto, preveggente l’impossibilità di abitare modelli interpretativi forti: i muri, in Fellini, cadono ben prima del 1989, ma questo è altra cosa dal sostenere – e gran parte della critica lo accusava proprio di questo – il disinteresse per la società, la politica e la cultura. Piuttosto, l’“inaffidabilità” e la “latitanza” ideologica di Fellini risultano quanto mai consone all’introspezione antropologica dei mutanti caratteri dell’italianità, agli ardui assestamenti normativi e valoriali di un popolo avviato a tappe forzate verso la Modernità. In sintesi: pensiamo che attraverso le opere di Fellini sia possibile tracciare un’altra storia d’Italia, dagli anni Trenta sino agli anni Novanta del XX secolo. Una rappresentazione, paradossalmente, “degna di fede”, qualcosa di sontuoso e magmatico che abbiamo cercato di raccontare prima nella Mostra e poi, ancor più, nel Fellini Museum.
Lo abbiamo fatto grazie a molti materiali d’archivio, ritrovati a Rai Teche o al Luce, alla Cineteca di Bologna o a Cinemazero di Pordenone… Oggi attivare il potenziale rielaborativo del cinema non-fiction è operazione concettuale che definisce uno degli orizzonti più interessanti dell’arte contemporanea: una forza propulsiva che sottrae le immagini a una storia lineare, o a una semplice prospettiva documentale, e le getta nella condizione di materiali elettivi per una riflessione senza pregiudizi sulla loro complessità e sul loro destino. Grazie alle crescenti pratiche del riuso d’archivio emerge un fondamentale aspetto del rapporto fra Museo e Documentarietà, una sorta di lotta fra un senso configurato e un senso incerto, in cui il riuso d’archivio condensa originali nuvole semantiche, con meno reti di protezione di un tempo.
Per questo ci siamo immaginati Mostra e Museo pensando che la vitale scia del montaggio potesse guidarci verso un allestimento dove immersività e interattività non fossero mere parole d’ordine funzionali, ma caratteri di un percorso emozionalmente ed esteticamente coinvolgente. Sembra un paradosso, eppure le immagini rivisitate, nel confronto con la “forma grande” felliniana, offrono un mix documentale capace di esprimere il potente respiro dell’idea di Paese, nel va et vien di prestiti, debiti, sollecitazioni fra le invenzioni del regista e la vita indiscriminata dell’Italia che Fellini stesso stava attraversando. Un intreccio fluttuante, in cui il poetico e il politico paiono molto vicini, in un reale gravido di desiderio e saturo di conflitti.
Negli ultimi anni il cinema ha aperto nuove strade nel rapporto con gli spazi espositivi. Oggi sembra normale vivere l’esperienza del film all’interno delle gallerie d’arte e delle mostre di arte visiva, in un crescente processo di riflessione e rilocazione sulle immagini. Un’“arte fuori di sé” – come recitava il titolo di una acuta riflessione del compianto Paolo Rosa, con Andrea Balzola – tesa alla moltiplicazione di esperienze immersive, in depositi emozionali capaci di disincagliare il sentire e innescare nuove dimensioni rituali. Luoghi in cui lo spettatore abbandona la tradizionale postura scolastica per divenire, piuttosto, “spettautore”.
Ecco perché il Fellini Museum, inaugurato nel 2021, vuole essere un cantiere aperto, un work in progress, una pista di lancio verso altri viaggi nel rapporto fra Rimini, Fellini e il mondo. Quelli di una città, e del suo grande regista, dal carattere di frontiera, fra orizzonti europei e aperture mediterranee, processi di secolarizzazione e credenze religiose, desideri di progresso e persistenza dell’arcaico. Di questi conflitti Fellini è stato rappresentante assoluto, in uno shock estetico che ci ha allenato alla complessità del mondo, alla sua mescolanza, alla sua magica impurezza.
Marco Bertozzi.